La commozione del vero Opere su carta di Claudio Cattaneo |
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di Giorgio Seveso | ||
È con questo titolo che avevo indicato qualche anno or sono una possibile sintesi della direzione espressiva di Cattaneo,
quando il tema della pittura figurativa e soprattutto di un suo personalissimo traslato liricamente conseguente, di una
traduzione delle cose oggettive nel privato della visione soggettiva, rappresentava e continua a rappresentare la
principale e appassionata tensione che ispira il lavoro.
È – sostenevo in quel testo – appunto la figurazione del vero a costituire il centro d’ogni sua cura espressiva, frutto più di una persuasione di natura quasi filosofica che di una scelta stilistica: una filosofia del naturale e del sensibile che tra le sue mani ha trovato immagini delicate e tonali, fatte di sguardo e di aria sottile, di fiati leggeri di luce ed ombra, e che dunque rappresenta come una sorta di risposta lirica alle crudezze dell’oggi, come una fervida consolazione interiore capace di farsi delicata e fragrante bellezza. Ora, questa particolare qualità del suo temperamento di pittore si fa ancor più spiccata ed evidente qui, nei dipinti su carta, dove disegni, acquerelli, guazzi, tempere, pastelli, più raramente acrilici ed oli divengono, per virtù intrinseche di esecuzione ma anche per la natura stessa del supporto cartaceo, tecnicamente più “rapido”, lo specchio di una impulsività e di un fervore operativi inediti rispetto ai tempi più meditati e più posati della pittura su tela o su tavola. Laddove insomma la mano e l’occhio si sentono più sciolti, liberi e veloci, ecco che diviene maggiormente fervido, fresco, immediato un lavoro d’elaborazione all’impronta, quasi un istinto d’annotazione di idee e di spunti, un momento magico di immediata resa dell’immagine in termini plastici e pittorici. Che Claudio Cattaneo da sempre nella sua arte si sia occupato soprattutto di una penetrante, assorta osservazione del vero, vale a dire di un vivo sentimento della realtà delle cose e del mondo, è fuor di dubbio. La parte più rilevante del suo lavoro è stata appunto dedicata da sempre all’incombenza panica, emozionale e sentimentale, della natura e degli oggetti da una parte e, dall’altra, della fisicità della figura umana, dei suoi gesti, della sua sacralità sentimentale, sempre sospesi, questi tre aspetti di una medesima poetica, alla concretezza della realtà come presenza immanente, irrorata e intimamente percorsa, tuttavia, da una onnipresente idealità spirituale, da un profondo e pervasivo sentimento del mistero dell’esistenza. E proprio in questa atmosfera dialettica, in questo dualismo tra la concretezza immanente delle cose e il loro senso spirituale – dualità, del resto, solo apparentemente contraddittoria a ben vedere – c’è da sottolineare una delle qualità più intime e private della sua vita creativa, il lievito interiore di queste opere su carta: il segreto, diremo, della sua mano e della sua opera. Che consiste non solo nella qualità di una scelta espressiva e tematica, ma che, molto di più, costituisce proprio un modo d’essere e di vivere, una peculiarità del suo temperamento, una sorta di profonda intensità verso ciò che ci circonda e verso la vita in cui siamo immersi. Ha scritto una volta il critico torinese Paolo Levi che “la pratica del figurare necessita di avere un suo lento apprendistato, e il sentimento del colore, per quanto innato, deve acquistare consapevolezza attraverso la conoscenza lessicale del disegno. La mente che guida la mano deve essere messa nelle condizioni di costruire un volume e una prospettiva, di misurare lo spazio e di contenerlo…” Ecco qui, dunque, la centralità che il disegno e la pittura su carta hanno sempre avuto nel suo lavoro, in pari dignità e mole di testimonianze e di esiti con la pittura su tela. Una centralità che si pone, dicevo, tra le ragioni dell’occhio e quelle del cuore, pronta a cogliere com’è, di fronte al modello o al motif, la verità dell’impulso espressivo, l’ispirazione più immediata e più sottile, sempre sostenuta dalla soffice robustezza di un rigoroso impianto compositivo. Qui, in queste carte che potrebbero talvolta avere il valore di un progetto per opere maggiori ma mantengono una loro autonomia e finezza d’immagine compiuta, le textures e i colori, le velature dell’acquerello o i segni della matita e del pennello costantemente si fanno metafora e filtro poetico di un vero e proprio clima dell’anima, di uno spleen commosso e scoperto. Come per una costruzione mentale elaborata con la memoria e con i sensi a sostenere un dialogo interiore con il proprio immaginario più segreto, con le più intime fantasticazioni dinnanzi alla contemplazione del vero e alla sua riproduzione. La distanza tra l’immagine e la contemplatività che la definisce si consuma man mano nel palpitare progressivo ed assorto dell’emozione fino ad annullarsi, per poi coinvolgere, implicare, compromettere il riguardante non meno dell’artista dentro il lievitare della rappresentazione, dentro il quieto sviluppo dei segni e delle forme significanti. Quello di Cattaneo è uno sguardo dunque che, rivolto alla natura e agli uomini, ai sedimenti di memoria che si depositano sui nervi più sensibili, finisce poi per risolversi, sulla tela e soprattutto sul foglio, nella scoperta dell’intensità delle sue circostanze liriche. L’ho già scritto altre volte per lui: sono circostanze pertinenti ad uno sguardo privo di retorica e di riverenza, se non quella dell’adesione alla verità delle forme, e dunque, a maggior ragione, denso d’esplorazioni e di scavi nel portato poetico della realtà. Forse è proprio questo uno degli aspetti più affascinanti di questa raccolta di fogli e carte. Cioè una tensione costante, quasi metafisica, a lavorare sull’epidermide della rappresentazione fino a farne emergere un sottile retrogusto di mistero, una trasfigurazione implicita di cui l’autore, tra slancio meditato e tensione lirica, l’ha caricata nel riserbo della sua commozione. Cattaneo lavora, qui, nell’attimo di grazia tra forma e sentimento, quando e dove, come scriveva Graham Sutherland, “il misterioso e l’intangibile vengono resi semplicemente evidenti e tangibili.” Giorgio Seveso Le figure Ritratti, modelle, corpi nudi e vestiti, gesti e sguardi, espressioni… Tutta una fitta galleria di figure, increspata dal senso di una acuta contemplazione: visioni sempre commosse, talvolta tenere, talvolta quasi turbate, di persone reali, di volti, di animali, tutti giocati sul foglio come fossero traslati di una memoria affettuosa e insieme penetrante, di una suggestiva e sempre emozionata volontà di accarezzare le fisionomie e le anatomie per svelarne il loro segreto, il loro nucleo più autentico e più riposto. L’adesione di Cattaneo alla verità delle forme, di cui scrivevo più sopra, è davvero manifesta soprattutto in queste immagini, diciamo così, di “ritratto”, genere nel quale le metafore sentimentali ed emozionali appaiono decisive per la loro allusività complessiva, come richiamo ai comuni sentimenti dell’esistere, alla dolcezza del vedere, alla speranza spirituale. È una poesia sottile ma anche risoluta, per la quale le soluzioni formali si inseguono e si dipanano in una lenta maturità espressiva in cui i colori , soprattutto d’acquerello e di pastello, si misurano allo sfarinamento della luce e dell’ombra, alle trasparenze e al controluce, in un’atmosfera capace di evocare tutto l’amore dell’autore verso la vita. Le nature morte Quando diciamo natura morta non facciamo più caso al fatto che da noi il nome di questo genere artistico (che rappresenta solo oggetti o vegetali, senza animali vivi o figure di persone) allude esplicitamente alla morte, cioè a qualcosa di inerte, di non vitale. Più pertinenti appaiono invece, in questo senso, l’inglese e il tedesco, le cui definizioni suonano come still-life e stillleben, cioè vita silenziosa, vita immobile, vale a dire, in altre parole, vita sospesa, solo momentaneamente interrotta dall’assenza degli uomini, cui, tuttavia, ogni cosa allude e riporta. E questo è vero soprattutto per artisti come Cattaneo, che, quando ritrae oggetti, frutta, fiori, suppellettili domestiche, non lo fa come mero esercizio di stile, come concretizzazione di questa o quella teoria pittorica, ma come sensibile omaggio allo spazio reale della vita, alla scenografia entro la quale si svolgono le vicende esistenziali dell’autore, gli affetti, le memorie, il trascorrere delle stagioni… La natura morta sembra essere per lui, nella più generale economia del lavoro creativo, una sorta di schermo privilegiato, intensamente concentrato, sulla superficie del quale prendono forma, assieme alle ragioni della pittura, anche motivi ed energie di carattere sottilmente psicologico. I paesaggi Il paesaggio è uno dei generi per eccellenza della pittura, contemplativo per definizione e, dunque, maggiormente rivelatore in maniera peculiare delle idiosincrasie dell’autore, dei suoi umori psicologici, dei caratteri distintivi del suo animo emozionale. Ponete, infatti, due pittori con il loro cavalletto davanti allo stesso scorcio di panorama, nelle stesse condizioni di tempo e di luce; le loro due tele, oltre alle ovvie diversità di linguaggio e di tecnica, presenteranno fatalmente una fondamentale diversità di intonazione, di atmosfera, di sguardo… La questione è – appunto – che nella perfetta neutralità della riproduzione della natura c’è proprio la radice di una soggettivissima interpretazione, di una più o meno vistosa distorsione o distillazione del vero che, riproducendo le sembianze del mondo, in realtà svela anche le qualità personali dell’osservatore, i particolari enzimi interiori della sua indole. Come accade anche qui per la costante attività paesaggistica di Cattaneo, sia essa dedicata ai luoghi della sua vita, alle emozioni dei viaggi o ai panorami degli affetti, in cui emerge – come precisa “grafìa” poetica ed emozionale – la gentile peculiarità di una visione di candore e d’incanto, una sorta di stupore cristallino, di atmosfera dilatata un poco melanconica e sospesa, dove, come per le figure e per le nature morte, la luce anche qui suggestivamente svapora e trascolora in una chiave di delicata, soffusa espressività lirica. |
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